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Sopravvenienze attive a seguito della cancellazione della società: dalle sentenze gemelle del 2013 all’integrazione di Cass. n. 9464/2020

Sentenze gemelle del 2013 all’integrazione di Cass. n. 9464/2020

In tema di scioglimento di società di capitali il terzo comma dell’art. 2495 c.c. prevede che, in seguito alla cancellazione della società dal registro delle imprese, ferma restando l’estinzione della società, i creditori sociali possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci in base a quanto hanno riscosso con il bilancio finale di liquidazione e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da questi. L’inciso iniziale («ferma restando l’estinzione della società») testimonia l’evidente intento di superare quanto si era affermato nella giurisprudenza anteriore alla riforma del 2003 secondo cui la cancellazione della società dal registro delle imprese altro non determinava che una mera presunzione di estinzione, suscettibile di prova contraria mediante la prova dell’esistenza di rapporti giuridici ancora pendenti, con la conseguente possibilità di far dichiarare la reminiscenza della società e il conseguente fallimento.
Unica eccezione alla disciplina codicistica successiva alla riforma societaria del 2003 è rappresentata dall’art. 33 C.C.I.I. (vecchio art. 10 L. Fall.) che prevede la possibilità di far dichiarare l’apertura della Liquidazione Giudiziale (vecchio Fallimento) entro un anno dall’estinzione della società.
La disciplina dettata per le società di capitali dall’art. 2495 c.c. trova applicazione, per ragioni di ordine sistematico derivanti dalla disciplina concorsuale, anche alle società di persone, la cui estinzione è disciplinata dall’art. 2312 c.c., integrato per le società in accomandita semplice dall’art. 2324 c.c.. L’estinzione della società di persone consegue analogamente a quanto accade per le società di capitali alla cancellazione dal registro delle imprese, ma con una differenziazione derivante dalla circostanza per cui, mentre nelle società di capitali l’iscrizione ha natura costitutiva, nelle società di persone essa ha natura dichiarativa. Ne consegue da ciò che l’estinzione delle società di persone, cancellata dal registro delle imprese, è suscettibile di prova contraria; tuttavia, essa non può consistere nella mera sussistenza di rapporti giuridici insoluti (in tal caso si ritornerebbe all’orientamento giurisprudenziale formatosi ante riforma del 2003 che il legislatore ha voluto definitivamente superare), bensì nella prova di un fatto dinamico: la società continua ad operare, nonostante la cancellazione dal registro delle imprese.
Questi sono i punti fermi delle sentenze 4060, 4061 e 4062 delle Sezioni Unite del 2010. Su tali basi è stato poi successivamente affermato, da parte di Cass. n. 8426/2010 la possibilità, tanto per le società di persone, quanto per le società di capitali la possibilità di addivenire alla “cancellazione della cancellazione” sulla base del fatto che la società, nonostante la cancellazione non si sia mai estinta in quanto ha continuato ad esercitare la sua attività.
Ciò costituisce lo snodo di partenza della motivazione delle sentenze gemelle 6070, 6071 e 6072 delle Sezioni Unite del 2013 che si sono pronunciate sulla sorte delle sopravvenienze di una società estinta.
Per quanto concerne i debiti sociali essi possono essere richiesti dai creditori agli ex soci in virtù del disposto di cui agli artt. 2312, 2324 e 2495 c.c., con un regime differenziato a seconda della tipologia di responsabilità di cui godevano gli ex soci pendente societate (i soci di società di capitali e i soci accomandanti di società in accomandita semplice risponderanno limitatamente a quanto riscosso nel bilancio finale di liquidazione, mentre i soci di società di persone risponderanno illimitatamente).
Non può ritenersi che l’estinzione della società determini l’estinzione dei debiti sociali e che l’azione di cui al secondo comma dell’art. 2495 c.c. delinei un’azione autonoma rispetto a quella che sarebbe esercitabile nei confronti della società in quanto, opinando in tal senso, si farebbe discendere da un atto unilaterale del debitore (la cancellazione della società) l’estinzione di tutti i debiti, onerando i creditori della società a dover riassumere il giudizio nei confronti di tutti i soci superstiti se questo era già stato avviato contro la società. Si frusterebbe in tal guisa il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.
Il debito dei soci, non è un debito nuovo, bensì il medesimo debito della società con una modificazione dal lato passivo cagionato dall’estinzione della società stessa.
Ciò che viene delineato dalla Corte di Cassazione, è un fenomeno di tipo successorio tra società e soci; questi ultimi continueranno a rispondere dei debiti sociali nei termini supra descritti. Tale ricostruzione risulta confermata anche dal disposto dell’ultimo periodo del terzo comma dell’art. 2495 c.c. secondo cui la domanda volta a far valere, nei confronti dei soci i diritti derivanti da crediti vantati verso la società, se proposta entro l’anno dalla cancellazione «può essere notificata nell’ultima sede della società», analogamente a quanto prevede l’art. 303 c.p.c., secondo comma, in tema di riassunzione del processo in seguito alla morte di una parte.
Per quanto attiene invece alle sopravvenienze attive la Corte fonda il suo ragionamento su una differenziazione fra le sopravvenienze conosciute (o quantomeno conoscibili) e quelle che viceversa non erano note. Quando si tratta di mere pretese, azionate o azionabili in giudizio oppure di un diritto di credito incerto e illiquido, è possibile che la cancellazione della società dal registro delle imprese valga come rinuncia tacita a far valere quella pretesa.
Qualora invece, si discuta di diritti che se fossero stati conosciuti sarebbero stati inclusi nel bilancio finale di liquidazione e quindi, ripartiti tra i soci, deve ritenersi che il meccanismo abdicativo di cui supra non possa trovare applicazione: si viene, invece, a delineare un meccanismo successorio di comunione indivisa, in maniera del tutto analoga a quanto accade per i debiti sociali.
Da tutto ciò deriva la seguente massima: «Ove una società si estingua a seguito di cancellazione dal registro delle imprese, i diritti e i beni si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa; la cancellazione implica, invece, rinuncia all’esercizio di mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei diritti di credito, controversi o illiquidi, la cui inclusione nel bilancio di liquidazione avrebbe necessitato di una ulteriore attività giudiziale o stragiudiziale da parte del liquidatore».
Un’applicazione rigida della massima così citata è messa in dubbio e confutata dalla pronuncia della I sezione civile della Cassazione risalente al 2020 (n. 9464/2020) che contesta l’automatismo di un meccanismo siffatto, anche alla luce del fatto che le tre sentenze gemelle del 2013 nel punto 4.1 della motivazione introducono il meccanismo di rinuncia tacita come una possibilità.
La critica principale mossa da questa pronuncia attiene alla inidoneità della cancellazione dal registro delle imprese a porsi come atto abdicativo di un diritto ed è argomentata sulla base dell’art. 1236 c.c. che disciplina la remissione del debito.
Ai fini di una valida remissione del debito è necessario quanto segue:
• la piena consapevolezza del creditore della sussistenza del credito nei confronti del debitore in quanto la remissione estingue l’obbligazione nei limiti in cui essa è voluta dal creditore;
• l’idoneità della forma e della modalità espressiva della rimessione a veicolare quest’ultima, nel senso che essa può anche risultare da comportamenti concludenti purché la volontà abdicativa risulti da comportamenti univoci del tutto incompatibili con una volontà diversa;
• la diretta destinazione della remissione al debitore in conformità con quanto prevede l’art. 1236 c.c. e con l’opinione giurisprudenziale unanimemente condivisa secondo cui la remissione sarebbe un atto unilaterale recettizio.
I requisiti di univocità, concludenza e recettizietà devono essere valutati con rigore relativamente alla rinuncia del credito da parte della società e la mera cancellazione dal registro delle imprese non è un elemento dirimente in tal senso. La cancellazione può benissimo essere stata disposta per mere ragioni di convenienza della società stessa, difettando in tal modo i caratteri di univocità e concludenza.
Per quanto attiene alla recettizietà deve escludersi che essa possa ritenersi sussistente avendo riguardo alla cancellazione del registro delle imprese; quest’ultimo è un atto rivolto nei confronti di una pluralità indeterminata di soggetti e non nei confronti del debitore specifico come richiede invece l’art. 1236 c.c..
Ne consegue che non può desumersi sic et simpliciter una rimessione del debito, un’abdicazione del proprio diritto da parte della società in conseguenza della mera cancellazione ma deve piuttosto valutarsi il comportamento globale della società ai fini di valutare se la volontà della stessa era effettivamente quella di rimettere il debito oppure no.
L’orientamento espresso dalla Cassazione del 2020 non è rimasto isolato, ma ha avuto seguito anche in seno alla corte di legittimità: Cass. n. 13586/2023, Cass n. 24235/2022, Cass. n. 36535/2022.
Si assiste però anche ad un’applicazione rigida della massima delle sentenze gemelle del 2013, come nel caso di Cass. n. 23269/2016 richiamata in motivazione da Cass. n. 24246/2023, la quale non tiene conto dell’evoluzione giurisprudenziale medio tempore intercorsa, esponendosi a forti critiche.


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